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Digital retail: quanto ne sappiamo davvero? Intervista a Fernando Mantovani, Digital Business Advisor Itsright

Intervista a cura di Pietro MarangeloMohamed Abdel Fatah – Master in Retail Marketing & Sales Management 2017-2018

Internet. Miliardi di byte, messaggi, connessioni, ordini, conversazioni; un mondo parallelo invisibile che guadagna sempre più punti sul mondo fisico. Ampiezza di gamma e velocità sono gli imperativi imprescindibili di chi oggi vuole fare business. Gli e-commerce sembrano essere diventate le nuove oasi per i consumatori che cercano tutto quello di cui hanno bisogno con la possibilità di averlo subito. Allora ci si chiede: possibile che il buon vecchio negozio stia perdendo terreno? Per nostra fortuna sembrerebbe di no, anzi. Quello che è certo è che ci troviamo nel bel mezzo di una gigantesca rivoluzione su scala planetaria dove l’etere e il fisico cominciano ad integrarsi dando vita a un modo di fare acquisti mai visto fino ad oggi. L’intervista che segue cerca di capire come, professionisti del digital guardano a questo nuovo mondo, ma soprattutto come ragionano le aziende e che idee hanno in merito ai consumi presenti e futuri dei nuovi e vecchi clienti.
Nella realtà digitale italiana il nome di Fernando Mantovani è letteralmente “connesso” con l’e-commerce. Perché? Avete presente kobo, il lettore e-book di Mondadori? In Italia lo ha portato proprio Mantovani. Nella nostra intervista abbiamo parlato con una persona disponibilissima che ci ha fatto conoscere sfaccettature del digital davvero affascinanti.

 

Scarica l’intervista in pdf “Digital retail: quanto ne sappiamo davvero?”

 

Ma chi è Fernando Mantovani? E come è approdato al digitale?
Sono approdato nel mondo digital per ragioni naturali, arrivavo da una laurea in economia con una tesi sull’industria discografica. Ho iniziato a lavorare proprio in questo settore, sempre dal lato digital. Ho letteralmente visto la nascita e l’evoluzione di Napster. Nel 2004 ho iniziato a lavorare in Sony dove mi sono occupato di servizi digital B2B. L’esperienza successiva è quella in Feltrinelli dove abbiamo rivisto l’intera struttura dell’e-commerce (l’Italia in generale veniva da diversi fallimenti proprio per quanto riguarda l’e-commerce). Poi c’è stata l’esperienza in Mondadori come direttore e-commerce, qui abbiamo introdotto Kobo, gli e-book e tanti altri servizi digital. Attualmente lavoro presso Itsright società che si occupa di gestire i compensi per i diritti connessi alla pubblica diffusione di musica registrata.

L’evoluzione digitale ha aperto la strada non solo a nuovi dispositivi mobili, ha anche aperto la strada a nuovi mercati (impensabili prima) e nuove forme di acquisto. Pensa che nel prossimo futuro l’acquisto on-line diventerà il canale preponderante? Quali sono i pro e i contro del canale digitale?
Penso che il digital diventerà preponderante se cambierà la nostra cultura di acquisto. Vi faccio un esempio. Avete presente la catena di negozi di giocattoli Toys “R” Us? Bene, un colosso che si è dovuto arrendere alle vendite on-line, difatti ha dichiarato la bancarotta. E non è l’unico caso. Tuttavia questo non vuole dire che la morte dello store è segnata. Vi faccio un altro esempio: se il conto economico del negozio fisico va male, il digital può, e deve sopperire; il problema è che in molti casi il digital non riesce a compensare e a quel punto digital o no si chiude. Questo per dire che l’on-line non è sempre la strada più ovvia. Uno dei problemi è che tutti vogliono seguire il modello Amazon o di altri pochi colossi. Tuttavia questi giganti hanno alle spalle enormi risorse e una struttura organizzativa che fa impallidire. D’altro canto il canale on-line ha tantissime cose positive: l’ampiezza di gamma è un esempio, e in particolare può diventare uno strumento molto efficiente se il portale utilizzato non cade in quello che io chiamo “barocco dell’usabilità” e cioè un sito molto burocratizzato, con tanti passaggi che ti portano su e giù.
Ci sono siti che per ragioni di incapacità di usabilità diventano goffi e di difficile utilizzo, da questo punto di vista Amazon è molto lineare. Certo non è proprio bello da vedere, ma in pochi click si effettua l’acquisto.
L’altro punto a favore del digital rispetto al fisico è la comodità. Un centro commerciale se non ha un certo livello di intrattenimento diventa noioso. Il canale digitale offre comodità (ti arriva tutto direttamente a casa), ampia gamma, risparmio di tempo. Un ulteriore aspetto in cui il digital compete (soprattutto in Italia) riguarda gli spazi dei negozi retail. Gli spazi messi a disposizione dei negozi sono molto costosi rispetto per esempio al contesto americano, ed è ovvio che si cerchi ottimizzare inserendo più articoli, ma questo va a discapito della fruibilità e dell’intrattenimento.
Eppure sembra che lo store fisico abbia ancora energia…
Ed è così. In Italia il business che tira è ancora quello tradizionale e questo proprio per quello che dicevo all’inizio, e cioè la cultura dell’acquisto. Ci sono ancora persone che hanno difficoltà a fare acquisti con le carte di credito pur utilizzando tecnologie moderne.
Qual è l’altra faccia della medaglia del digital?
Sapete che cos’è il “carbon footprint”? Rappresenta la quantificazione di tutte le emissioni gas ad effetto serra lungo tutto il ciclo di vita del prodotto. Il problema ha bisogno di essere affrontato. Si pensi solo alle migliaia di pacchi che viaggiano ogni giorno. L’altro punto debole riguarda lo strapotere di alcuni gruppi internazionali, in particolare, l’eccessiva competizione sul prezzo va a scapito di chi nel digital lavora ai livelli più bassi. Non si parla ancora di “schiavi digitali” però pensiamo ai ragazzi che fanno consegne sulle bici, come avviene tutta la regolamentazione? Oppure pensi ad un tassista che ha speso un mare di euro per comprare una licenza, arriva Uber e smonta tutto. Il digitale deve essere sostenibile e le istituzioni devono intervenire. Altrimenti chi è all’apice continua ad arricchirsi mentre ai livelli più bassi ci si ammazza di lavoro.
Rispetto ad altri paesi, com’è il rapporto degli italiani (sia aziende che clienti) con gli acquisti (e vendite) su piattaforme e-commerce?
Cominciamo col dire che non siamo un paese che può essere preso ad esempio sull’e-commerce. È vero, il digitale cresce, soprattutto nel fashion ma meno rispetto agli paesi. L’italiano più maturo fatica ancora ad usare questo strumento; non solo, ci sono anche problemi di tipo strutturale, intendo proprio in merito alla tecnologia che viene applicata agli e-commerce, banda larga e via dicendo. In poche parole l’Italia non è innovatrice dal punto di vista della cultura digitale. Va però detto che il nostro paese è caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese per quasi la totalità e molto spesso la mentalità del fondatore è di tipo tradizionale. Senza considerare il divario Nord-Sud. In definitiva è possibile affermare che il processo di digitalizzazione è iniziato ed è irreversibile. Ma rimane molto lento.
In merito alla formazione del capitale umano può dirci qualcosa? Nello specifico tale formazione è in linea con le esigenze delle aziende orientate verso il digital?
La formazione dei giovani che arrivano in azienda è in linea con le aspettative, anzi, ragazzi bravi a programmare vengono subito assunti anche prima della fine del ciclo di studi; anche per quanto riguarda il business analyst c’è molta richiesta. L’università da questo punto vista sta facendo un buon lavoro. Il problema è che le aziende, ritornando al discorso di prima, risultano essere lente nell’evolversi. Non solo, c’è poca flessibilità proprio nel lavoro. Ad esempio, pensiamo a un dipendente che è stato in azienda per tanti anni e non vuole più crescere dal punto di vista professionale per il semplice fatto che ormai è soddisfatto, se questo dipendente volesse retrocedere (riducendo anche lo stipendio) per esempio andando in magazzino, ma anche se volesse fare formazione ad altri dipendenti, potrebbe lasciare il posto a un giovane. Ma da noi questa cosa è impensabile.
Un’ultima domanda. Che consigli darebbe ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro, che competenze secondo lei sono necessarie per essere all’altezza delle nuove sfide?
Credo che i requisiti più importanti siano flessibilità, curiosità, determinazione ma in particolare l’umiltà. I ragazzi che arrivano in azienda non devono avere paura di dimenticare i vecchi modelli. Partire dal basso in particolare, secondo me è fondamentale per capire i processi e le logiche aziendali. E soprattutto l’inglese, due lingue sarebbe l’ideale, ma l’inglese è ormai una competenza che deve intendersi assodata.

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Mohamed Mahmoud Abdel Fatah Mohamed

Mohamed Mahmoud Abdel Fatah Mohamed

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