0

“Disastri ed eroismi nell’Antropocene” – Introduzione e intervista a Marco Frey

A 44 giovani del Master per laureati in discipline scientifiche che desiderano entrare nel mondo del lavoro, in questo settembre 2020, ho mostrato l’immagine sotto riportata della pittrice Shawn Mary Hardy, che dipinge quelli che lei chiama Dreamscapes, paesaggi di sogno, appartenenti all’Arte Cosmica.

Tutti i ragazzi, in un’età compresa tra 23 e 27 anni, avevano il compito di inventare una storia, divisi in dieci gruppi.

Due gruppi hanno inventato rispettivamente una storia da bar a lieto fine, un uxoricidio, ma otto gruppi, senza alcun input precedente, senza essersi messi d’accordo in quanto fisicamente distanti, hanno scritto copioni di racconti distopici, in sintesi di un pianeta ammalato e di un essere umano o più persone che potevano tornare indietro nel tempo, oppure andare avanti, oppure avevano sognato che ancora qualcosa si poteva fare per evitare l’apocalisse. E che questo avrebbe ridato un senso alla propria vita, e quindi anche quella eudaimonia, la felicità per uno scopo di significato.

Storie di cambiamento progressivo, partendo dai Disastri che l’essere umano ha compiuto nell’Antropocene.

 

 

Questa immagine si chiama The Lobbyst, il Lobbista: l’arte cosmica, da intervista con la pittrice Shwan Mary Hardy, insiste sullo stravolgimento delle dimensioni degli oggetti, persone, animali, monumenti, pianeti e fiori: l’essere umano appare piccolo e va a ridimensionarsi rispetto alle altre forze della natura, di conseguenza iniziando a rispettarle.

Volevo già fare scrivere ai ragazzi, suddivisi in gruppi, un capitolo su ogni disastro qui elencato (dallo Smog di Londra, a Chernobyl, a Bhopal, Exxon Valdez, la deforestazione, l’uragano Katrina, Fukushima, lo Spill Out in Siberia del 2019), tematiche che avevo selezionato a fine agosto, ma avevo dubbi sulla pesantezza che i ragazzi avrebbero incontrato, confrontandosi con il dolore delle catastrofi, dopo tutta la tristezza della pandemia: ma sono state proprio le storie scritte da loro, ispirate da questo quadro, che mi hanno tranquillizzato e detto che ci si poteva avventurare in queste “terre da loro inesplorate anche se dolorose”. E loro hanno accettato la sfida, mettendosi alla prova.

Quando ho raccontato il fatto al Prof. Marco Frey, un’eminenza riconosciuta a livello mondiale sui temi Green e Sostenibilità – la proposta di un libro scritto, né saggistico, né divulgativo, insomma un ibrido, su questi temi, Disastri ed Eroismi nell’Antropocene – è stato un grande onore sapere che aveva accolto questa iniziativa, un po’ folle, in una disamina dei fatti da parte di scienziati sì, ma non esperti di queste materie. Gli sono profondamente grata, e desidero aprire il libro con l’intervista che di fatto pone le chiavi di lettura per i capitoli successivi e le conclusioni finali, parlando di salute del pianeta, le pietre miliari a tutela del pianeta, di questioni economiche e responsabilità collettive e individuali, di valori insomma.

Intervista a Marco Frey condotta da Maria Giulia Marini.

MGM – A che punto siamo con la salute del pianeta?

MF – Il concetto di Planetary Health è stato introdotto nel 2015 da uno studio di Lancet e Rockfeller Foundation volto a mettere in evidenza la necessità di perseguire il più elevato livello di salute, benessere ed equità raggiungibile in tutto il mondo, attraverso una equilibrata governance dei sistemi – politici umani, economici e sociali – determinanti per il futuro dell’umanità, e dei sistemi naturali terrestri che definiscono i confini ambientali entro i quali l’umanità può svilupparsi.

Questo concetto corrisponde ad una visione della sostenibilità “forte”, in cui la dimensione ambientale (lo stato dei sistemi naturali) condiziona la salute della civiltà umana (benessere) e, di conseguenza, anche dell’economia (sviluppo).

In questa prospettiva l’uomo sin dalla sua presenza sulla Terra si è proposto come un trasformatore degli equilibri naturali, non limitandosi ad accedere ai servizi degli ecosistemi, ma modificandone le caratteristiche prima attraverso l’agricoltura, in particolare quella estensiva, e poi con l’industria.

Negli ultimi due secoli l’azione umana ha profondamente intaccato la salute del Pianeta, generando conseguenze negative sul proprio benessere. Se nel corso della prima rivoluzione industriale era stato soprattutto l’inquinamento generato dai combustibili fossili a evidenziare criticità significative, la seconda rivoluzione industriale ha portato nuove sostanze artificiali che hanno riempito il mondo di rifiuti, di sostanze tossiche, depauperando al tempo stesso la biodiversità e il capitale naturale.

Oggi la salute del Pianeta è profondamente compromessa. Facendo riferimento ai nove limiti planetari identificati dal ricercatore svedese Johan Rockström, il superamento dei quali renderebbe la terra molto più inospitale, abbiamo già oltrepassato il limite di sicurezza per quattro: biodiversità e clima, sfruttamento del suolo e riciclo di nutrienti (come azoto e fosforo).

Negli ultimi 40 anni la fauna selvatica del pianeta si è ridotta, secondo il WWF, del 60 % a causa delle attività umane e quasi tre quarti della superficie terrestre ha subito alterazioni che hanno relegato la natura in uno spazio sempre più ristretto. La crisi della biodiversità e la crisi climatica sono tra loro intrinsecamente legate: i cambiamenti climatici, attraverso siccità, inondazioni e incendi boschivi, accelerano la distruzione dell’ambiente naturale, che a sua volta, insieme all’uso non sostenibile della natura, è uno dei fattori alla base dei cambiamenti climatici. Anche le conseguenze economiche di questo peggioramento sono molto rilevanti: ad esempio si stima che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano causato perdite pari a 3 500-18 500 miliardi di Euro l’anno in servizi ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato 5 500-10 500 miliardi di Euro l’anno.

MGM – Quali sono le principali pietre miliari nella preservazione del pianeta?

MF – La consapevolezza che fosse necessario intervenire per preservare il Pianeta prende forma a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Prima erano state già avviate iniziative per la Conservazione dei Parchi, a partire dall’esperienza ottocentesca dei Parchi Nazionali americani, ma era parte di una visione più idilliaca del rapporto con la Natura. Con gli anni Sessanta emerge progressivamente la consapevolezza che è necessaria una strategia internazionale di protezione della natura.

Nel 1966 nasce il WWF Internazionale e nel 1970 si tiene la prima Conferenza Internazionale a Stoccolma sull’uomo e l’ambiente, in cui si evidenzia, tra l’altro, che le risorse naturali devono essere protette, riservate, opportunamente razionalizzate per il beneficio delle generazioni future.

Nel 1972 esce poi il rapporto del Club di Roma, “I limiti dello sviluppo”, commissionato all’MIT che mostra come il Pianeta stia entrando in una fase di insostenibilità del modello di sviluppo, che richiede una profonda trasformazione delle scelte e dei comportamenti collettivi.
Inizia così il percorso che nell’arco di vent’anni porta ad una prima pietra miliare delle politiche di preservazione del Pianeta: la Conferenza di Rio de Janeiro sullo sviluppo sostenibile del 1992. In quella circostanza i capi di Stato delle principali Nazioni del Mondo sono riusciti a costruire una visione di futuro, preparata dal volume “Il futuro di noi tutti” curato da Gro Bruntland, fatta propria nella Dichiarazione di Rio “Il futuro che vogliamo” e poi declinata in modo articolato nell’Agenda 21, un programma strategico di intervento sulle sfide cruciali per l’ambiente e la sostenibilità: dal cambiamento climatico, alla tutela della biodiversità, alla preservazione dei mari, alla riduzione delle sostanze tossiche.

Dopo Rio 1992 però la spinta verso un impegno multilaterale nei confronti della sostenibilità si è progressivamente affievolito e le Nazioni Unite hanno organizzato un’altra importante Conferenza internazionale vent’anni dopo, sempre a Rio, nel 2012. Le condizioni erano diverse, con il mondo attraversato da una triplice crisi (economica, sociale e ambientale), ma si riuscì comunque a creare una convergenza in cui le istituzioni internazionali, sempre più deboli, aggregarono l’impegno di molti altri attori verso le sfide della sostenibilità. Ciò creò le condizioni per arrivare ad un’altra pietra miliare delle politiche internazionali della sostenibilità: che è costituita dall’Agenda 2030, il piano strategico delle Nazioni Unite approvato a New York nel settembre 2015. Questo documento, con i suoi 17 obiettivi e 169 target, costituisce il riferimento principale per cercare di recuperare con un approccio strategico di profondo cambiamento del modello di sviluppo le grandi criticità che l’uomo ha generato negli ultimi decenni.

MGM – Abbiamo visto che i disastri come Chernobyl, Bhopal, Fukushima e altri sottendono quasi sempre delle ragioni economiche. Che tipo di economia sottostà a queste decisioni di non prevenzione, non intervento, assenza di risk managament e disaster recovery?

MF – Ovviamente un’economia incapace e inadeguata. I grandi disastri che l’uomo ha causato in misura crescente negli ultimi sessant’anni sono il risultato della difficoltà a gestire adeguatamente i rischi. L’errore umano in queste vicende è sempre fortemente presente, ma vi è stata soprattutto una sottovalutazione di carattere sistemico dei pericoli presenti nella gestione di determinate attività.

È ciò ha delle conseguenze economiche devastanti sia per le organizzazioni coinvolte che per i territori e le comunità che le subiscono. Oggi a questi disastri causati direttamente dalla incapacità umana si sommano quelli che contribuiamo a generare nella natura. In un recente rapporto del CRED di Lovanio e dell’UNDRR (UN Office of Disaster Risk Reduction) si mostra come nell’ultimo ventenniovi sia stata una forte crescita degli eventi disastrosi, che sono passati dai 4.212 del ventennio 1980- 99, ai 7.348 del periodo 2000-2019. Questi hanno coinvolto 4,3 miliardi di persone con perdite economiche pari a quasi tre trilioni di dollari. Tra gli eventi che sono cresciuti di più, triplicandosi, vi sono le alluvioni, ambiti in cui è chiarissima la dinamica di cause in cui le modificazioni indotte dall’uomo si legano strettamente al cambiamento climatico.

Gli attori economici però hanno capito quanto i disastri naturali siano ormai le cause principali di messa a repentaglio delle attività. Nell’ultimo rapporto sui rischi presentato a Davos nel gennaio 2020 al World Economic Forum i cinque rischi più rilevanti percepiti dalla business community erano tutti riconducibili a problematiche ambientali (primo fra tutti il cambiamento climatico).

MGM – Abbiamo delle chance concrete che si arrivi ad un’economia circolare?

MF – L’economia circolare è uno dei modi per affrontare la strutturale carenza di risorse per una popolazione destinata a diventare prossima ai 10 miliardi nei prossimi decenti. È evidente che non possiamo assolutamente permetterci gli attuali sprechi, ma direi di più: la visione dell’economia circolare si propone di emulare quanto avviene nella natura, in cui vi è una gestione rigenerativa e restorativa delle risorse disponibili. Ripensare sin dalla progettazione dei prodotti e dei servizi i cicli di vita della produzione e del consumo, significa arrivare al recupero e al riciclo di una parte importante della materia che oggi viene consumata. Siamo molto lontani da buoni risultati: oggi solo l’8% della materia prima immessa nei mercati viene effettivamente riciclata al mondo, per il resto continuiamo a spogliare la Terra di materie prime vergini. Eppure, molte trasformazioni in questa direzione stanno avvenendo, soprattutto nei Paesi occidentali. L’Europa, prima nel 2015 e poi a marzo 2020, ha messo in campo due Piani di azione sull’economia circolare che hanno unito a nuove Leggi, azioni di incentivazione alla ricerca e di supporto alla circolarità di alcune filiere chiave. Molte imprese hanno capito che l’economia circolare è una strategia per essere più competitivi e anche i consumatori sono sempre più sensibili e disponibili. Non a caso l’obiettivo dell’Agenda 2030 su produzione e consumo responsabile è uno di quelli in cui ultimamente si sono ravvisati i miglioramenti più significativi. Sulla transizione verso un’economia più circolare possiamo quindi essere moderatamente ottimisti.

MGM – Quale è il messaggio etico e esistenziale che lei personalmente sta traendo dalla presente pandemia e come orienta le sue attività di ricerca e insegnamento secondo questi valori?

MF – Il principale messaggio che sto traendo è che è indispensabile accelerare la profonda trasformazione dei nostri stili di vita di cui avevamo cominciato ad assumere consapevolezza prima della pandemia.

Il precedente modello di sviluppo si è rivelato essere profondamente inadeguato e deve essere modificato radicalmente. Bisogna guardare alla qualità più che alla quantità, consumando meglio, vivendo più in sintonia con la natura, muovendoci in modo corretto, ritrovando equilibri che caratterizzavano le generazioni di un passato non lontano.

La natura ci sta lanciando molti messaggi e il lockdown ci ha dimostrato tante cose: che in pochi mesi le emissioni di gas serra possono tornare indietro di quindici anni (dopo essere cresciute costantemente), che la natura può riemergere dai mari e dai boschi, che il senso di solidarietà che stavamo perdendo può ritornare, che si può ritrovare una maggiore conciliazione tra lavoro e benessere.

In altri termini possiamo recuperare una maggiore salute dell’uomo con il suo pianeta. Forse il vero Antropocene dovrebbe essere questo.

Per quanto riguarda la mia attività di insegnamento e ricerca, è strettamente connessa con queste tematiche. Insegno la progettazione e la gestione della sostenibilità collegata alle sfide come quella dell’Agenda 2030 o dell’economia circolare. Nell’attività di ricerca nell’ambito del nostro Laboratorio sulla sostenibilità della Scuola Superiore Sant’Anna cerchiamo di interpretare le diverse transizioni (energetica, alimentare, verso la decarbonizzazione, del lavoro, e così via), accompagnando imprese e istituzioni verso il cambiamento, misurandone i risultati e valorizzando il tutto nelle nostre tre missioni: le pubblicazioni, l’insegnamento e l’impatto nella società. In quest’ultima ambito quando posso mi impegno anche insieme ad altre organizzazioni della società civile. Infatti, dobbiamo attivarci tutti per “il futuro che vogliamo”, ciascuno per quanto gli è possibile (come hanno fatto gli allievi del master con questo libro). Malgrado le tante difficoltà che stiamo vivendo è difficile non trovare un ottimismo della volontà nello sforzo per il futuro dei nostri figli.

MGM – Grazie infinite professore. Adesso entriamo nello sguardo dei ragazzi, ovvero di come hanno letto per noi questi Disastri e Eroismi e responsabilità sociali.

Buona lettura.

Facebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedintumblrFacebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedintumblr
Maria Giulia Marini

Maria Giulia Marini

Lascia un commento