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L’ombra del caporalato nel settore agroalimentare

Estratto dal project work a cura di  Alice Bazzan, Marcello Cartosio, Bruno Moro, Ilaria Romano e Mariasilvia Scippa – Master Giuristi in Azienda 2018-2019

20 Luglio 2015, Abdullah Mohamed, bracciante sudanese di 47 anni, muore sui campi di Nardò e riporta all’attenzione dei mass media la questione spesso insabbiata ma sempre attuale del caporalato.
Il lavoro dei carabinieri del ROS di Lecce ha messo in piena luce il percorso che i pomodori della ditta Mariano, presso la quale lavorava Abdullah, compivano per arrivare sulle tavole degli italiani; da ciò si è scoperto come alcune fra le più grandi ed importanti aziende trasformatrici, estranee va detto ad ogni contestazione, si rifornissero di materia prima raccolta proprio nell’azienda protagonista della vicenda giudiziaria: la Mutti Spa di Montechiarugolo (Parma), la Rosina di Angri (Salerno) e Conserve Italia società cooperative agricole di San Lazzaro in Savena (Bologna) (Repubblica, Lecce bracciante stroncato dal caldo imprenditore agricolo e caporale rinviati a giudizio, 4 gennaio 2018)

Partendo da questo fatto di cronaca, il gruppo ha realizzato un project work di analisi, studio e intervista con alcuni referenti; da un’analisi macroscopica della situazione economica nel nostro Paese, osservando il settore specifico del pomodoro all’interno di un mercato concorrenziale e comprendendo poi la storia delle aziende coinvolte, si approfondiranno ed evidenzieranno i problemi sottesi alla filiera agroalimentare del pomodoro.
Da un lato è stata analizzata l’evoluzione normativa del caporalato mettendo in luce gli aspetti critici della stessa e, dall’altro, il perverso meccanismo delle aste online delle materie prime.
Il fine ultimo di tutta l’analisi è, da una parte, evidenziare come le aziende coinvolte pur non essendo direttamente responsabili per le condotte oggetto dell’analisi, siano state ugualmente interessate da un punto di vista reputazionale e, dall’altra, come le stesse, anello intermedio della filiera, possano considerarsi ad oggi soggetti deboli ove operino nella contrattazione con la GDO.

Come dimostrano i dati e le ricerche sul settore agroalimentare le imprese tendono a non operare più soltanto a livello locale, ma sono sempre più propense a de-localizzare i propri strumenti di produzione frammentando i processi produttivi. Questi ultimi, sempre più frequentemente, vengono poi dislocati in Paesi in via di sviluppo in cui il costo del lavoro o delle materie prime è più basso e la legislazione nazionale non offre tutele adeguate ai lavoratori.

Se da una parte lo Stato nazionale può effettivamente scegliere quali strumenti predisporre a tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, dall’altra, la violazione di norme internazionali a tutela dei diritti umani costituisce di per sé un crimine contro l’umanità, quindi potenzialmente perseguibile oltre i confini nazionali anche da tribunali internazionali o internazionalizzati.

Nodo della questione, è l’assoggettabilità delle imprese multinazionali alle norme di diritto internazionale. Le imprese, infatti, non sono destinatarie di obblighi diretti e, di conseguenza, non sono responsabili a livello internazionale per la violazione di norme a tutela dei diritti umani; dunque, per impedire da parte loro la commissione di gravi crimini, l’unica via ad oggi percorribile è rappresentata dagli strumenti di soft-law.

A tal proposito, è importante sottolineare come il tema della reputazione aziendale stia divenendo sempre più importante per le imprese sia a livello nazionale che locale. Questo avviene anche a seguito delle pressioni esercitate dai gruppi di influenza e delle organizzazioni internazionali che orientano l’opinione pubblica, influenzando i consumi e i comportamenti dei consumatori. Queste istanze hanno portato le imprese più avvedute a dotarsi spontaneamente, pur in assenza di obblighi specifici, di strumenti interni quali codici di condotta, codici etici o pratiche di corporate compliance che garantiscono al consumatore finale non solo la qualità del prodotto, ma anche il rispetto dei diritti umani e della dignità stessa dei lavoratori.

Sono pertanto le aziende stesse ad “autoimporsi” un obbligo nel prevenire condotte anti-etiche tramite meccanismi interni. Ed è proprio questa la linea intrapresa da alcune delle aziende coinvolte nel caso esaminato, quali Mutti e Cirio, che hanno adottato politiche aziendali volte ad esercitare un controllo quanto più penetrante possibile nei confronti delle proprie filiere, pur non ottemperando alcun obbligo di legge vigente in Italia.

Per una trattazione più completa del problema, è necessario prendere in analisi due fenomeni che, seppure da direzioni diverse, esercitano una pressione fondamentale al fine di favorire e creare condizioni ideali per lo sviluppo e la proliferazione del caporalato:

  • le aste online della GDO
  • lo sfruttamento delle raccolte stagionali per l’ottenimento dei contributi INPS non dovuti.

 

Le aste online della grande distribuzione (GDO)

Le aste online della grande distribuzione sono un fenomeno in uso da lungo tempo nel Nord America, approdato in Italia solo negli ultimi decenni. (Internazionale, Con le aste online i supermercati rovinano i lavoratori, marzo 2017).

La logica è di facile comprensione: il committente contatta i potenziali fornitori, chiedendo a quale prezzo sono disposti a cedere una determinata quantità di prodotto (soprattutto generi alimentari). Il prezzo più basso indicato dai fornitori costituirà la base d’asta. A questo punto, le grandi catene distributive, attribuiscono ad ogni fornitore una password e un codice personale per partecipare. Si tratta naturalmente di aste al ribasso in cui i fornitori spesso, pur di aggiudicarsi la commessa, arrivano a vendere il proprio prodotto a prezzi economicamente insostenibili.

Nel caso specifico dell’industria del pomodoro, urge sottolineare come le aste abbiano luogo in primavera, ossia prima che il pomodoro sia realmente disponibile o raccoglibile, quindi prima ancora che le aziende produttrici di passate, pelati e conserve abbiano stabilito un contratto con le aziende agricole o fissato un prezzo di vendita della materia prima. Il trasformatore, dunque, cercherà di concludere un contratto che lo faccia rientrare nei costi in considerazione dell’asta aggiudicatasi, senza considerare l’effettiva condizione di un settore in cui il clima è una variabile ad alto rischio per quanto concerne la produttività.
È evidente di come si tratti di un meccanismo che contribuisce direttamente ad incoraggiare lo sfruttamento del lavoro sommerso e quindi del caporalato, facendo leva sull’abbondanza della manodopera a basso costo (favorita dai flussi migratori) e sulla rarefazione dei controlli in agricoltura, dati dalla difficoltà pratica oltre che dall’onerosità di questi ultimi da parte delle istituzioni.

 

Lavoro stagionale e caporalato

Il sistema previdenziale italiano prevede che coloro che abbiano svolto un’attività agricola per un minimo di 51 giornate nell’arco di un anno solare, percepiscano un’indennità di disoccupazione annuale e la maturazione dei contributi a fini pensionistici.

Come testimoniano alcune delle interviste realizzate per il presente progetto e i dati delle procure, spesso accade che tali giornate non siano effettivamente lavorate ma siano solo fittizie, dichiarate al fine di consentire l’indebita percezione di indennità di disoccupazione, malattia, assegno nucleo famigliare e maternità. Di questo sistema approfitterebbero sia i singoli lavoratori che imprese private, favorendo così situazioni di sfruttamento lavorativo e il ribasso del costo del lavoro.

Il caporalato, è il fenomeno, di regola posto in essere da organizzazioni criminali, di sfruttamento dell’altrui attività lavorativa, per lo più agricola o edile, con metodi illegali e in aperto spregio alle normative in materia di lavoro.
All’interno di questa nozione confluiscono naturalmente così la fattispecie della mera intermediazione illegale, come altre manifestazioni di sfruttamento illecito della manodopera che comprendono la violazione dei diritti fondamentali del lavoratore e la violenza verso questi.

Fino al 2011 i giudici penali non avevano alcuno strumento normativo specifico per contrastare direttamente le condotte fin qui genericamente descritte; indi per cui, quando se ne presentavano i presupposti, ad essere applicate erano la disciplina sull’estorsione ex art. 629 c.p. o quella punitrice della violenza privata ex art. 610 c.c. o ancora quella specifica, ma molto più grave, della riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù ex art.600 c.p..
Prova questa della improcrastinabile necessità che il legislatore intervenisse per costruire una effettiva deterrenza nei confronti degli sfruttatori rendendo maggiormente afflittivo il trattamento sanzionatorio.
Si sta parlando della disposizione incriminatrice della “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, introdotta nel 2011 per modernizzare l’apparato repressivo penalistico.
Il Parlamento è intervenuto ulteriormente sul codice penale con la legge n. 199 del 2016 recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”, modificando la disposizione incriminatrice elaborata solo qualche anno prima.
L. 26.10.2016, n. 199 ha riformulato la disposizione, tentando di semplificarne la struttura ed ampliando il novero dei soggetti attivi del reato, non solo a chi svolga l’attività di illecita intermediazione, ma anche a chi si avvalga di manodopera sottoponendola a condizioni di sfruttamento ed approfittando del suo stato di bisogno.

Allo stato delle cose, la realtà dello sfruttamento illecito del lavoro in agricoltura è la risultante di spinte provenienti dai due estremi della filiera: dall’alto, dalle pressioni che la GDO esercita tramite il sistema delle aste online; dal basso, da chi, pur potendo ricorrere a strumenti normativi adeguati al fine di tutelare i propri diritti, vi rinuncia allo scopo di perpetrare una truffa ai danni dello Stato per percepire un indebito guadagno accedendo ai contributi previdenziali e all’indennità di disoccupazione.
Per quanto attiene ai diritti dei lavoratori, la convergenza di queste forze deteriori ha comportato un salto all’indietro di 200 anni, invertendo il paradigma secondo il quale dovrebbe essere il diritto del lavoratore – inteso come diritto ad una “equa e dignitosa” retribuzione – a determinare il prezzo del prodotto. Allo stato, invece, la concentrazione del potere contrattuale nelle mani di pochissime centrali d’acquisto in Europa, fa sì che il valore di mercato del pomodoro sia da esse stabilito prescindendo dal costo effettivo della produzione e dunque dal costo della sua manodopera.
Ciò porta le aziende trasformatrici a concludere contratti “capestro” per aggiudicarsi grandi commesse e così a scegliere, a cascata, i fornitori di materie prime con i prezzi più competitivi. Questi ultimi, nonostante si dotino spesso di meccanismi di certificazione di sostenibilità etica (es. Rete Agricola di Qualità), di frequente, per garantire la fornitura, ricorrono al caporalato, sfuggendo così ai controlli delle aziende.

Alla luce di quanto rilevato, emerge come il contrasto al fenomeno del caporalato possa essere profittevolmente implementato solamente da una collaborazione sinergica dello Stato e delle aziende.

Una soluzione normativa praticabile, ricalcando l’esempio francese, parrebbe quella di regolamentare il meccanismo delle aste online; questo tuttavia, secondo molti operatori del settore, potrebbe violare le regole del libero mercato ed essere osteggiata dall’antitrust.

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Alice Bazzan

Alice Bazzan

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