0

Una società costretta – Project Work Analogico Scienziati in Azienda

A cura di: Eloisa Pellegrino, Andrea Ruggio, Eleonora SiniChiara SpagnuoloMarco Taras – Master Scienziati in Azienda 2017-2018

Giuditta e oloferne - Project Work Master ISTUD

Scarica il project work completo “Una società costretta”

Il quadro “Giuditta e Oloferne” di Caravaggio ritrae l’episodio biblico in cui la giovane vedova ebrea Giuditta è intenta a tagliare la testa del comandante dell’esercito Assiro, Oloferne, per salvare il proprio popolo dall’invasione straniera. Giuditta si serve della sua bellezza per conquistare il condottiero dell’esercito nemico, riesce a farsi invitare nella sua tenda e a farlo ubriacare, dopodiché, appena l’uomo si addormenta, lo decapita con la sua stessa scimitarra. All’estrema destra del dipinto, vi è la figura di un’anziana donna, una serva, che assiste alla scena cruenta e sembra quasi incitare la giovane. Al di là dell’episodio a cui assistiamo, analizzando più da vicino la figura di Giuditta, ci accorgiamo come dal suo sguardo traspaia la riluttanza che ella prova nel compiere il gesto estremo. Quasi sicuramente lei avrebbe preferito trovarsi in un altro posto, lontano da lì, ma poiché è la Società a domandarglielo, mandante ben più grande di lei, Giuditta non può sottrarsi al suo destino e deve macchiarsi di questo crimine per la salvezza e la libertà del suo Popolo.

Oggi così come ieri, la società chiede, la società impone. Spesso spingendoci a tarare le nostre emozioni e le nostre personalità su un comune denominatore, consapevoli o meno, ci trasformiamo in “una Giuditta”. Gli interrogativi che sorgono risultano quindi i seguenti: cosa ci viene chiesto ogni giorno? Cosa ci viene imposto? È così che è nato il filo conduttore alla base del nostro progetto: una società “costretta”.
Il termine costretta, nella nostra accezione, ha un duplice significato: da una parte si riferisce ad una società che ci fa sentire stretti, limitati e non liberi di pensare, parlare, agire come vorremmo; dall’altra ci riporta ad una società che ci costringe a comportarci in un determinato modo. Basta fermarsi a riflettere un attimo: nella vita di tutti i giorni sono molte le sfere (personale, sociale, professionale, etc.) in cui le nostre azioni non sono sempre e solo il frutto delle nostre scelte. Al contrario, spesso prendiamo delle decisioni dettate dal bisogno di adeguarsi, di sentirsi accettati, di sottostare a regole comuni, molto spesso non scritte ma comunque radicate in una mentalità che ci porta sempre più ad ignorare la nostra coscienza personale a favore di una coscienza collettiva. Insomma al nostro gruppo è sembrato che in fin dei conti c’è una Giuditta in ognuno di noi; solo che oggi anziché teste, vengono tagliate personalità, libertà di pensiero ed espressione, famiglia, lavoro. Da questi presupposti è partita la riflessione che ci ha portato ad esplorare alcune delle tematiche in cui può essere declinato il nostro concetto di “società costretta”.

I social network possono presentarsi come un trampolino di lancio per la gloria o, al contrario, condurre alla decadenza della propria personalità, fino ad arrivare a mietere vere e proprie vittime del web. La causa dei problemi legati allo scorretto utilizzo dei social comincia dalla nostra dipendenza da essi: una connessione permanente ai social può rendere l’individuo meno “sociale”, paranoico fino a creare dei conflitti. L’uso della parola scritta può generare più malintesi della parola pronunciata.
Parole anche alla base dei messaggi che fomentano il terrorismo, fenomeno che, associato ad una moltitudine di mezzi di comunicazione, può influenzare i comportamenti degli individui nell’attuare azioni estreme come gli attacchi suicidi e gli attentati terroristici. Allo stesso tempo è da sottolineare come anche la nostra società contestualizzata nella famiglia, nella religione, nell’economia, nell’integrazione e nel razzismo spesso si presenta come terreno fertile nei processi di cambiamento delle persone.
Persone “indifese” in grado di diventare “criminali” quando si trovano nel branco che sia per timore di essere assalite o emarginate dal resto del gruppo, o semplicemente per vantarsi ed essere emulate. Bullismo, cyber bullismo sono solo alcune delle costrizioni del branco a cui assistiamo ogni giorno tra le strade delle nostre città a causa di questa malsana concezione di acquistare potere da parte della nostra società costretta.
Un potere utilizzato spesso in modo sbagliato anche sulle donne nei luoghi di lavoro che si ritrovano sempre più dinanzi ad una scelta tra il loro essere donna e mamma e la loro carriera, che subiscono violenze psicologiche da parte di colleghi o superiori per ottenere un posto o confermarlo, donne alle quali è ostacolata la possibilità di fare carriera al pari degli uomini. Tutto questo semplicemente perché si è donna e donna molto spesso purtroppo è una figura purtroppo ancora vincolata solo alla parola ‘casa’ dimenticandosi che dietro c’è molto altro.
Dire donna significa anche dire bellezza, estetismo. Una concezione di bellezza però sempre più omologata e distorta che sta rendendo tutti manichini nelle forme e nello stile. Forse per insicurezza o per trovare sicurezza nel gruppo, forse perché si è bombardati da modelli sbagliati o forse semplicemente perché è più semplice essere un numero tra tanti che avere il “coraggio” di distinguersi ed essere unici.
A queste “Giuditte” costrette come quella del Caravaggio, si contrappone quella meno costretta della Gentileschi alla quale tutti dovrebbero auspicare: più consapevole e cosciente che non si può essere mai del tutto liberi, ma che in questa società abbiamo il potere e il dovere morale di scegliere e fare la differenza.

Facebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedintumblrFacebooktwittergoogle_pluspinterestlinkedintumblr
Eleonora Sini

Eleonora Sini

Lascia un commento