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HR e “inno-leadership”. Intervista a Laura Iacci, amministratrice di Skill Risorse Umane.

A cura di Roberto Capuano, Lorenzo D’Arcaria, Lino Maria Guttuso, Grazia CannoneMarina CallejaMaster in Risorse Umane e Organizzazione

 

Apri o scarica da Slideshare l’intervista completa a Laura Iacci – Skill Risorse Umane

 

Partiamo dalla stazione di Baveno quando dal cielo cominciano timidamente a spuntare le prime luci dell’alba. È una mattina di metà dicembre: l’umore è frizzante, il freddo pungente, la banchina deserta. La speaker con voce metallica annuncia che partiremo in leggero ritardo: ci aspetta un lungo viaggio fino a Brescia, dove incontreremo nel pomeriggio la dott.ssa Laura Iacci, fondatrice e titolare di Skill Risorse Umane. Dopo aver cambiato vari treni ed esserci rifocillati con un provvidenziale sandwich all’avocado, giungiamo finalmente a destinazione. In ufficio ci accoglie la dott.ssa Gaia Cutrera, referente dell’area formazione, che con gentilezza ci fa accomodare nella stanza dove avrà luogo la nostra intervista. Soltanto qualche istante e siamo raggiunti dalla dott.ssa Iacci, che presentandosi con un affabile sorriso ci mette subito a nostro agio.

Incontro con Laura Iacci

Ci introduca Skill Risorse Umane: quali sono le sue aree di attività e che ruolo ricopre all’interno dell’azienda?

Skill Risorse Umane è una società che nasce nel 1999, focalizzandosi su attività di ricerca e selezione del personale. Ci siamo poi sviluppati nel corso degli anni introducendo, grazie anche a un’evoluzione normativa, nuove attività e servizi. Oggi Skill si fonda su tre aree: la prima è appunto legata alla ricerca e selezione di personale qualificato, parliamo quindi di figure di specialist e posizioni di middle management o di livello ancora più alto. La seconda area è costituita dalla formazione, rivolta in particolare alle aziende, che sono i nostri principali interlocutori. Infine, la terza è quella della consulenza, nella quale convergono servizi come la progettazione e l’implementazione di sistemi di valutazione delle performance, oltre alle indagini di clima o di benessere organizzativo, attraverso le quali misuriamo anche i fattori di rischio e lo stress legato al lavoro. Sono indagini volte, di fatto, a rilevare il percepito delle persone. Svolgiamo poi molte attività di assessment, ovvero di valutazione, riferite in particolare alle risorse che operano all’interno delle organizzazioni. Sembra che nell’ultimo periodo vi sia una crescente attenzione, da parte delle aziende, nel voler prevedere quali possano essere le performance delle proprie risorse all’interno dei ruoli di maggiore responsabilità.

 

Qual è il settore di riferimento delle aziende che richiedono i vostri servizi?  

Skill Risorse Uma­­­­ne è articolata i­n due sedi: una principale a Brescia e una a Milano, ed è nell’area della sede principale che sviluppiamo maggiormente il nostro network. Essendo questa una piazza a forte vocazione industriale, la nostra clientela è caratterizzata in prevalenza da aziende manifatturiere, nello specifico aziende che operano nel settore della meccanica e della siderurgia. Ovviamente non mancano, seppur in misura minore, aziende che operano nel comparto dei servizi o in altri settori merceologici.

 

Com’è nata, in lei, l’idea di creare una realtà autonoma come Skill Risorse Umane piuttosto che svolgere un lavoro dipendente?

In tutta onesta è nata da una necessità di sopravvivenza (ride, ndr). Nel 1988, quando mi sono laureata, non esisteva un mercato così ricco nel settore della consulenza. Ho visto nascere, ad esempio, tutto il mondo delle agenzie interinali, poi diventate di somministrazione, ed erano pochissime le società che all’epoca si occupavano di ricerca e selezione del personale e di consulenza nell’area HR. Ho cominciato facendo un percorso all’interno di una società di consulenza, con condizioni contrattuali molto precarie. Da questa difficoltà oggettiva è nata l’idea di costituire Skill Risorse Umane. La fame, quindi (ride, ndr), e il desiderio di coltivare un’ambizione di natura personale.

 

Può raccontarci, se c’è, la sua giornata tipo in azienda?

È difficile trovare una giornata tipo. Come amministratrice della società, oltre alla gestione delle relazioni, mi concentro in particolare sullo sviluppo di nuovi progetti e di un’offerta che resti sempre coerente con i bisogni delle aziende. Laddove ci pervengano delle richieste il mio compito è soddisfarle, e soddisfarle vuol dire spesso studiare dei progetti ad hoc. Ad esempio, se ci viene richiesto di avviare un’indagine di clima all’interno di un’organizzazione, il progetto deve essere studiato sulla base di quella specifica situazione, e gli strumenti che andremo a utilizzare saranno mirati, poiché non vi è mai un’indagine di clima uguale all’altra. C’è poi, ovviamente, un’attività di supervisione generale.

 

Quale può essere, per un’azienda, il vantaggio di richiedere un servizio ad un soggetto terzo come Skill Risorse Umane, piuttosto che avere uno staff interno che si occupi di HR?

C’è in primis una questione legata al contenuto: non sempre nelle aziende si trovano, all’interno dell’area HR, tutte le competenze specifiche utili a coprire i diversi processi soft. Per contro, una società specializzata come la nostra, che nel corso dell’anno svolge molti assessment e indagini di clima, ha la possibilità di dedicarsi a queste attività in maniera più accurata ed efficace. Possono poi aggiungersi motivi di natura economica: in alcune circostanze può aver convenienza, per l’azienda, attivare un partner esterno piuttosto che avere una risorsa interna dedicata. Ci sono, infine, delle ragioni legate alla delicatezza che alcune iniziative portano con sé. Una parte terza, oltre che avere una visione incontaminata e non influenzata da nulla, è vista come una maggiore tutela dagli stessi dipendenti. C’è quindi anche il tema dell’etica professionale e della riservatezza, che in alcune aree di attività è molto sentito.

 

Negli ultimi anni, in relazione alle difficoltà del contesto socio-economico, ci sono stati dei mutamenti all’interno dell’area HR?

Direi di sì, e ce ne saranno ancora. Nell’ambito della selezione, il cambiamento forse più palese ed evidente per tutti è quello del massiccio utilizzo dei social media, che ha introdotto una metodologia di lavoro diversa e a suo modo complessa. Questa è sicuramente una rivoluzione importante. Altri cambiamenti li riscontriamo nella crescente sensibilità delle aziende rispetto alle attività di sviluppo. I sempre più numerosi assessment che svolgiamo rispondono in alcuni casi a cambiamenti di carattere organizzativo, in altri all’esigenza di valorizzare al meglio le potenzialità delle persone, in un mercato del lavoro che è sempre più complicato, dove le aziende hanno maggiore difficoltà nel reperire profili specializzati, e dove quindi il tema della retention deve essere molto curato.

 

Parlando di nuove tecnologie, trova che il web e i social network abbiano reso più efficace il processo di selezione? O hanno portato anche qualche svantaggio?

Sicuramente hanno portato, in generale, una maggiore efficacia: ora è molto più semplice raggiungere e intercettare la persona “skillata”, che occupa una posizione di rilievo in una determinata azienda, rispetto a qualche tempo fa. Piattaforme come LinkedIn permettono ai professionisti di proporsi e di distinguersi rispetto alla maggioranza degli utenti, e ciò rende indubbiamente più agevole la ricerca. La complicazione nasce dal fatto che la popolazione che risiede all’interno di questi social è spesso lì perché deve esserci, ma non è attiva nella ricerca di un lavoro. Tutto ciò si traduce in un dispendio di risorse molto importante: si ha l’illusione di poter intercettare chiunque e in qualsiasi momento, salvo poi capire che le persone con cui si entra in contatto spesso non sono interessate a cercare un’alternativa. Sicuramente questo ha portato a una modifica nelle dinamiche di relazione fra chi offre e chi cerca lavoro. Le aziende arrivano da decenni in cui, quando lanciavano una ricerca del personale, avevano l’imbarazzo della scelta, o quantomeno si trovavano in una situazione privilegiata. Oggi, al contrario, la relazione è più bilanciata e biunivoca: questo richiede, da parte delle aziende che vogliono accaparrarsi i profili più specialistici e talentuosi, un investimento in attività di employer branding e di comunicazione, per distinguersi come realtà in cui può essere interessante lavorare.

 

Sulla base di quanto ha appena detto, quando si trova un candidato ideale poco propenso a cambiare azienda, fino a che punto lo si “corteggia”?

In generale è molto delicato riuscire ad acquisire figure che si pongono con un atteggiamento poco elastico. Molto dipende dalla politica interna delle aziende e dal loro margine di manovra in termini retributivi.

 

Che differenza c’è nel selezionare figure medio-alte, rispetto a fare recruiting per posizioni di livello inferiore?

Ritengo che la differenza sostanziale sia nel fatto che mentre i profili medio-bassi vengono valutati in relazione a competenze di carattere tecnico-professionale, più si sale sul piano della responsabilità e della discrezionalità di ruolo, più si introducono nella parte di valutazione anche competenze di tipo soft. Quindi, in aggiunta a una rilevazione di competenze tecnico-professionali, andiamo soprattutto a rilevare quelle che sono competenze relazionali, emozionali, innovative, cognitive e manageriali.

 

C’è una domanda atipica che solitamente ponete ai candidati?

Normalmente le interviste che sviluppiamo sono semi-strutturate: si parte cioè da un canovaccio comune, ed è poi dalla relazione con il candidato e dalla sua storia personale che emerge lo spazio per eventuali approfondimenti. Non credo molto nelle domande “preconfezionate”. Possono essere un valido aiuto quando si è alle prime armi poiché costituiscono una sicurezza, ma finiscono poi per vincolare troppo l’esplorazione.

 

Può raccontarci un momento particolarmente difficile che è riuscita a superare con successo nel corso della sua carriera?

Fatemi pensare (sorride, ndr). Nel 2013 c’è stato un momento di recessione piuttosto importante: l’attività di selezione stava soffrendo a causa di un mercato un po’ stagnante, e dal punto di vista del risultato economico c’era una situazione non facile. Abbiamo quindi pensato di introdurre nuovi servizi, andando a sviluppare maggiormente quelle aree di attività in cui non avevamo ancora una posizione consolidata. C’è stata la determinazione di puntare in particolare sull’attività di formazione, andando anche ad aumentare il nostro personale con l’inserimento di figure dedicate, e questo ci sta dando ragione: i numeri ci sono, c’è piena soddisfazione e riteniamo di aver imboccato la strada giusta.

 

A quali difficoltà va incontro un professionista HR in questo momento storico, e che profilo dovrebbe avere per ricoprire un ruolo come il suo?

Ritengo che le maggiori difficoltà siano di carattere relazionale e commerciale, e questo vale per ogni professionista, non solo nel settore HR. Io sono arrivata a questa posizione passando da un ruolo tecnico, prima di essere un’amministratrice svolgevo attività di selezione in un’altra società, ed ero molto concentrata sul contenuto, che mi appassionava e mi appassiona ancora molto. I requisiti che deve avere l’amministratore di una società vanno però oltre il contenuto: ci sono aspetti di natura commerciale, di relazione, di networking, di visione, di innovazione, di introduzione di altri servizi, di intercettazione dei trend del prossimo futuro. L’aspetto più rilevante è forse quello relazionale, essendo le relazioni il veicolo di comunicazione delle proprie attività. Ma è altrettanto importante saper prevedere quali sfide si sarà chiamati ad affrontare.

 

In relazione alla sua posizione di amministratore e gestore di un team, come ritiene si possa esercitare in modo equilibrato la funzione di leadership?

Credo che oggi un leader non possa non rendersi conto che deve agire la propria leadership in direzioni un po’ diverse rispetto al passato. Ci sono secondo me due temi fondamentali. Uno è quello dell’innovazione: oggi i leader dovrebbero essere inno-leader, a prescindere dalle aree funzionali di cui sono responsabili, perché a mio avviso l’innovazione si può portare ovunque. Ed è chiaro che un leader non debba soltanto saper innovare, ma allo stesso modo saper stimolare la creatività e l’innovazione all’interno del proprio team. Il secondo tema, strettamente connesso a questo, è quello della condivisione, che vuol dire apertura, collaborazione, networking, capacità di lavorare con team interfunzionali e multidisciplinari, poiché si crea innovazione laddove si riesce a raccogliere il contributo di pensieri eterogenei. In molte aziende si sta andando verso un concetto di minor impatto gerarchico del ruolo di leadership, si auspica cioè che il leader sia percepito come un facilitatore. Sì, riassumendo direi proprio che il leader deve essere un innovatore e un facilitatore.

 

Skill Risorse Umane GermoglioPer concludere, come descriverebbe Skill Risorse Umane utilizzando una metafora? 

Domanda complicata (ride, ndr)… Alle vostre spalle avete un quadro che rappresenta un germoglio. Non si tratta di un quadro trovato e acquistato, ma è stato commissionato, voluto così. Quel germoglio vuol significare sviluppo. Sviluppo che noi sosteniamo e supportiamo all’esterno, ma che prima ancora deve nascere all’interno, lavorando su di noi e mettendoci costantemente in discussione per cercare di crescere giorno dopo giorno.

 

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Roberto Capuano

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